Non è configurabile una responsabilità penale di un internet host provider nel caso di violazione della privacy realizzata con un video diffuso sul Web. Lo ha sancito la Cassazione, che per questo, lo scorso dicembre, ha confermato l’assoluzione dei manager di Google finiti sotto processo per il video, diffuso nel 2006, in cui un ragazzo disabile veniva picchiato e schernito da alcuni compagni di classe.
"I reati di cui all’articolo 167 del codice privacy, per i quali qui si procede - si legge nella sentenza depositata ieri dalla terza sezione penale - devono essere intesi come reati propri, trattandosi di condotte che si concretizzano in violazioni di obblighi dei quali è destinatario in modo specifico il solo titolare del trattamento e non ogni altro soggetto che si trovi ad avere a che fare con i dati oggetto di trattamento senza essere dotato dei relativi poteri decisionali".
Il gestore del servizio di "hosting", osserva la Suprema Corte, "non ha alcun controllo sui dati memorizzati né contribuisce in alcun modo alla loro scelta, alla loro ricerca o alla formazione del file che li contiene, essendo tali dati interamente ascrivibili all’utente destinatario del servizio che li carica sulla piattaforma messa a sua disposizione".
La posizione di Google Italia e dei suoi responsabili, rilevano i giudici di piazza Cavour, "è quella di mero internet host provider, soggetto che si limita a fornire una piattaforma sulla quale gli utenti possono liberamente caricare i loro video", del cui "contenuto - spiega la Cassazione - restano gli esclusivi responsabili".
Alla luce di ciò, i manager di Google imputati nel procedimento "non sono titolari di alcun trattamento", mentre "gli unici titolari del trattamento dei dati sensibili eventualmente contenuti nei video caricati sul sito sono gli stessi utenti che li hanno caricati, ai quali soli possono essere applicate le sanzioni, amministrative e penali, previste per il titolare del trattamento del Codice Privacy".
Chiedere ad un provider internet di verificare preventivamente i contenuti pubblicati dagli utenti mette a rischio la "libera manifestazione del pensiero". E' impossibile farlo manualmente e rischioso per la libertà di espressione affidarlo ad un sistema automatico.
Chiedere ad un provider internet di verificare preventivamente i contenuti pubblicati dagli utenti mette a rischio la "libera manifestazione del pensiero". E' impossibile farlo manualmente e rischioso per la libertà di espressione affidarlo ad un sistema automatico.
Sono queste le motivazioni, diffuse a due mesi dalla sentenza, per cui i giudici della corte d'appello di Milano hanno assolto dall'accusa di violazione della privacy 3 manager di Google, in merito al caso del video in cui un ragazzo disabile minorenne veniva insultato e umiliato da alcuni compagni di classe.
Il filmato girato in una scuola di Torino rimase online per circa un mese nella sezione "video divertenti". La sentenza d'appello del 21 dicembre scorso aveva ribaltato quella di primo grado emessa dal tribunale di Milano nel 2010 che aveva condannato i 3 dirigenti a 6 mesi per violazione della privacy.
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