Universo più vecchio del previsto, satellite Planck ritrae foto primordiale


È la Mappa con la ‘emme’ maiuscola. Quella che i cosmologi di tutto il mondo attendevano impazienti dal 2009, anno del lancio del telescopio spaziale Planck dell’Agenzia Spaziale Europea. Ieri, puntuale, è stata presentata al mondo nel corso di una conferenza stampa internazionale che si è tenuta a Parigi. È il frutto dei primi 15 mesi e mezzo di raccolta dati, il risultato di una perlustrazione dell’intero cielo nelle bande di frequenza da 30 a 857 GHz: quelle dove si annida la radiazione cosmica di fondo a microonde, la luce fossile primigenia, risalente a quando l’universo aveva appena 380.000 anni. 

Con pazienza certosina, gli scienziati del team di Planck – molti dei quali italiani – l’hanno distillata dal mare d’impurità che la contaminavano. Il risultato è la mappa più accurata e precisa che mai stia stata prodotta della CMB (Cosmic Microwave Background), la prima luce del cosmo. Nei meandri del suo labirinto si celano non solo i semi originari di tutte le strutture osservabili oggi, dagli ammassi di galassie alle stelle, ma anche i parametri fondamentali dell’universo. Parametri che, se in gran parte confermano il cosiddetto “modello standard della cosmologia”, presentano anche alcune sorprese. 


E lasciano affiorare domande inedite. Domande che, per ottenere risposta, potrebbero richiedere una nuova fisica, si legge in un comunicato INAF. Anzitutto, l’universo ha da oggi qualche capello bianco in più. Se a WMAP (il satellite NASA predecessore di Planck) aveva dichiarato un’età di circa 13,7 miliardi di anni, ora è costretto ad ammettere di averne 13,82, milione più milione meno. Detta così sembrano gli argomenti di conversazione tra i personaggi di Big Bang Theory, ma in realtà è un numero che a sua volta deriva da un altro parametro d’importanza cruciale: la costante di Hubble.

Costante che indica la velocità alla quale l’Universo si sta oggi espandendo, e che i dati di Planck attestano a 67.15: un valore significativamente inferiore rispetto a quello correntemente utilizzato in astronomia. Un secondo aggiustamento va poi apportato alla ricetta cosmica. Se la natura degli ingredienti continua a rimanere in gran parte oscura, per quanto riguarda le dosi Planck s’è fatto un’idea ben precisa. Cresce, seppure di uno zero virgola, la fetta della materia “normale”, quella di cui sono fatte le stelle e le galassie, che passa dal 4% al 4,9%.


Incrementa di un buon quinto il contributo dell’altra materia, quella “oscura”, della quale continuiamo a non sapere alcunché se non che si attesta ora su un ragguardevole 26,8%. Cede invece terreno, pur continuando a farla da padrona, l’energia oscura: i dati di Planck indicano che costituisce il 68,3% dell’universo, dunque meno di quanto si pensava. Ma in fondo questi sono solo ritocchi, per quanto significativi. Diverso il discorso, invece, per i tre principali scostamenti rilevati da Planck rispetto al modello standard: nel loro caso, si tratta di autentiche anomalie. 



La più sorprendente, del tutto inattesa, riguarda lo spettro di potenza delle fluttuazioni della temperatura della CMB: a grandi scale angolari non corrispondono a quelle previste dal modello standard. Il loro segnale, dicono i dati, è meno intenso di quanto implicherebbe la struttura a scala angolare più piccola osservata da Planck. Sembra molto complicato, e in effetti lo è. Provando a tradurre in un linguaggio a noi più affine, potremmo dire che, ascoltando la sinfonia del cosmo primordiale, Planck s’è accorto che è un po’ carente nei suoni bassi. 

Delle altre due anomalie, invece, già si mormorava qualcosa, dunque colgono i cosmologi meno di sorpresa. Una è il cosiddetto cold spot, una regione fredda che si estende su una porzione di cielo molto più ampia del previsto. L’altra è un’asimmetria fra le temperature medie nei due emisferi opposti del cielo, in contrasto con quanto predetto dal modello standard, secondo il quale l’Universo dovrebbe essere grosso modo simile in tutte le direzioni in cui lo osserviamo. Entrambe erano già state notate anche dal predecessore di Planck, la missione WMAP della NASA, ma erano state in gran parte ignorate per i dubbi che permanevano circa le loro origini cosmiche. 



Via: INAF
Crediti immagine: ESA/Planck Collaboration

Nessun commento:

Posta un commento